giovedì 27 maggio 2010

La Chiesa e il Vaticano sono simile ad Amway?

Come una questione pratica, la gestione quotidiana della Città del Vaticano è supervisionata dalla commissione pontificia per lo Stato della Città del Vaticano, che si trova in un grande palazzo di cinque piani, il Palazzo del Governo, ubicato direttamente dietro San Pietro. Proprio in questo momento, la Città del Vaticano ha ufficialmente 1.339 dipendenti, 471 cittadini, e solo 314 residenti, la maggior parte di loro cardinali e alti prelati, oltre alcune suore e le Guardie Svizzere. Dietro le mura medievali del Vaticano stanno giocando soltanto una decina di bambini, i figli di un pugno di guardie svizzere sposate.

L'ironia del cattolicesimo in tutto il mondo, però, è che questa piccola, onnipotente, fortemente centralizzata monarchia è in grado di mantenere una tale grande influenza sulla comunità cattolica in tutto il mondo. ‘E in grado di farlo proprio perché, contrariamente alla credenza popolare, esercita poco controllo effettivo sugli affari quotidiani della Chiesa.

Mentre il Vaticano stesso può essere una monarchia, il modello organizzativo a cui la Chiesa cattolica intera somiglia maggiormente è effetivamente Amway. ‘E una vasta multilevel multinazionale globale organizzazione nella quale tutti i componenti --- benchè vendono gli stessi prodotti allo stesso modo --- sono in gran parte, ma non completamente, autonomi.

Nell'immaginario popolare, il papa segue tutto, dentro e fuori di Roma, ma in realtà tutte le migliaia di diocesi, ordini religiosi, scuole e ospedali sono in gran parte indipendenti, con le proprie strutture organizzative, delle loro politiche, e, cosa più importante di tutti, il proprio denaro. Quando il Vaticano esercita il potere, lo fa solo là dove può essere il più efficace --- le nomine dei vescovi, per esempio, o nel contesto che potrebbe essere definito la politica globale --- e quel potere è, in effetti, se non in teoria, strettamente limitato.


Hutchinson, Robert J. When in Rome: A Journal of Life in Vatican City. Main Street Books, Doubleday: New York, 1998. Pagini 47-48.


As a practical matter, the day-to-day running of Vatican City is overseen by the Pontifical Commission for the State of Vatican City, located in a large five-story office building, the Government Palace, found directly behind St. Peter’s. At this writing, Vatican City itself has officially 1,339 employees, 471 citizens, and only 314 residents, most of them cardinals and high-ranking prelates, as well as some nuns and the Swiss Guards. Only about ten children can be found playing behind the Vatican’s medieval walls, the children of the handful of married Swiss Guards.

The irony of worldwide Catholicism, though, is that this tiny, all-powerful, highly centralized monarchy is able to maintain such great influence over the worldwide Catholic community. It is able to do so precisely because, contrary to popular belief, it exercises very little actual control over the day-to-day business of the Church.

While the Vatican itself may be a monarchy, the organizational model the Catholic Church as a whole resembles the most is actually Amway. It’s a vast multilevel, multinational, worldwide organization in which all of the component parts --- while selling the same products in the same manner --- are largely but not completely autonomous.

In the popular imagination, the pope runs everything, inside and outside of Rome; but in fact all of the thousands of dioceses, religious orders, schools, and hospitals are largely independent, with their own organizational structures, their own policies, and, most important of all, their own money. When the Vatican does exercise power, it does so only where it can be most effective --- in the appointments of bishops, for example, or in the setting what might be termed global policy --- and that power is, in fact if not in theory, strictly limited.


Normalmente non seguo le notizie sul Vaticano, ma qualche mese fa, quando è uscito lo scandalo di pedofilia ho pensato a queste parole di Robert Hutchinson. Se ci fosse stato uno scandalo nell’Amway, come avrebbe risposto? Che avrebbe fatto Amway? Se ci fosse qualche venditore che mettesse dell’acido nella sua crema per il viso e poi, quando il cliente con la faccia ferita invece di migliorata, si lamentasse con il venditore e il suo superiore e loro rispondessero che il cliente dovrebbe tacere perché se il cliente parlasse nuocerebbe ad Amway? E se le persone più importanti di Amway avessero notizia di queste cose ma non facessero finta di non averle sentite?

Il mestiere di Amway è quello di vendere prodotti cosmetici e detersivi. Se qualsiasi venditore di Amway avesse recato dei danni ai clienti in questo modo penso che Amway toglierebbe il diritto di vendita dei suoi prodotti a venditore in questione, o di essere un rappresentante di Amway in qualunque modo.

Nel caso del Vaticano e della pedofilia, allorche uno di loro arrecasse dei danni invece di aiuto spirituale, e poi lui e il suo superiore dicessero alla vittima che dovrebbe tacere? Se il Papa o qualcuno tra i più importanti nel Vaticano sentisse che questo fosse successo che farebbe? Niente? O forse, come nel caso ipotetico di Amway, gli toglierebbe il diritto di essere un rappresentante della chiesa, lo scomunicherebbe.

Se io avessi comprato una cosa per migliorare la pelle e dopo averla usata avessi scoperto che normalmente questo prodotto dovrebbe funzionare bene, ma che il venditore da cui l’avevo comprata avesse messo dell’acido per recarmi dei danni, almeno sarei sicura che non comprerei mai più un’altra cosa di Amway. Non penserei a tutti gli altri bravi venditori di Amway, ma solo che non posso più fidarmi di Amway.

Che tristezza che tanta gente perda fiducia nella chiesa, nel Vaticano, in questo modo. Tutte le cose buone che la maggior parte della gente di chiesa fa verrebero oscurate dalle cose brutte che fa una sua minoranza. Se il Papa potesse essere più responsabile nei confronti dei suoi fedeli restituirebbe la fiducia nella chiesa e il Vaticano . . . .


giovedì 18 marzo 2010

L'assurda idea moderna che il compito di un ristorante è nutrire a richiesta i passanti fortuiti

Mentre aspettiamo di essere chiamate, due nuovi clienti arrivano; due villeggianti per il weekend che si sono allontanati dalla costa, a giudicare dalla mancanza su di loro di spago e fazzoletti annodati. Si: Il loro handicap linguistico li fa scoprire. Si rivolgono a Luigi in Italiano. Ordinano anche del vino bianco frizzante e delle olive: l’aperitivo classico. Proveranno ad insinuarsi nella sala da pranzo di Maria? Sono, come noi eravamo solo poche settimane fa, innocenti sul fatto che i nostri ristoratori non si interessano per niente all’assurda idea moderna che il compito di un ristorante è nutrire a richiesta i passanti fortuiti? Speriamo; e giudicando dal silenzio di attesa che è calato tra i giocatori di carte riuniti, così sperano anche gli altri.

Attirati dal tintinnio dei coltelli e delle forchette, il ronzio basso di chiacchiere di compagnia mentre mangiano, i profumi di cucina che fanno venire l’acquolina in bocca, di tanto in tanto un gruppo di quegli stranieri ignoranti entrano sicuri pensando che hanno trovato il ristorante di campagna delizioso che cercavano: il buon cibo dei contadini, i piatti locali e tradizionali, delle specialità di produzione locale fresche dal giardino vegetale. Hanno ragione, ovviamente. Maria è contenta di nutrire chiunque dia un preavviso con piatti deliziosi ed autentici senza fine, con un’abbondanza terrificante e un’insistenza grande, come sappiamo a nostre spese. Ma il dettaglio del preavviso è fondamentale.

Maria ti dirà che dare un giorno di preavviso è semplice cortesia se ti aspetti di ricevere un pasto decente. O una mattina, perlomeno. Lei ha molto da dire su questo argomento, e tutti non vedono l’ora di sentir dirglielo ancora.

‘E possibile, chiederà, che le vite dei stranieri possono essere così prive di senso e caotiche che non possono prevedere da un giorno all’altro dove e come mangeranno? Non hanno nessun rispetto per i loro ospiti, che dovranno improvvisare qualcosa vergognosa da qualunque cosa c’è in giro, ed impedirgli di dimostrare in pieno la virtuosità della loro cucina? A meno che , certo, non vogliono della pasta dai pacchi, un sugo fatto con pomodori in scatola: in questo caso non hanno nessun rispetto per i loro stomaci, e sono venuti nel posto sbagliato. Le sue povere affamate vittime usciranno furtivamente con una pulce nell’orecchio, o si accorderanno per ritornare domani con un appuntamento --- preferibilmente dopo che si sono seduti per una chiacchierata civile su quello che è disponibile, cosa è di stagione, e quale preparazione preferiscono. Come la gente normale. Un gioioso ridacchiante commento in dialetto scoppierà non appena escono dalla porta. Guardare la gente che si crede superiore perdere la faccia, fare una brutta figura, come si dice qui, è uno sport nazionale: e vergognosamente, non possiamo trattenerci dall’essere impazienti di, con tutti gli altri nel bar, portare testimonianza del disagio dei stranieri.

Ormai, abbiamo capito che non siamo piu straniere della gente che viene dalle altre parti d’Italia; anche loro sono annoverati come stranieri, nè possono parlare la lingua locale, e facilmente sono così degni di essere guardati in cagnesco come noi. Le persone da Milano o Torino, o qualunque degli altri paesi e città delle pianure alte e ricciose del nord, non sono solo stranieri ma anche ‘gente de pianüa’, in dialetto. Detta con i giusti toni del disprezzo fulminante, questa frase transmette tutto quello che un laborioso agricoltore della collina rimasto sempre a lottare contro diluvio e siccità, con i muri crollanti dei campi errazzati e con gli ulivi ricalcitranti, vorrebbe dire su quei ricchi e pigri buoni a nulla ricci e pigri che vivono una vita facile perdendo tempo in uffici o fabbriche, o coltivando quella terra piatta e fertile in cui non devono quasi mai sollevare una zappa. La gente, infatti, che non ha mai fatto un giorno di duro lavoro in tutta la sua vita. Per di più, tra i raccolti che crescono così con aria compiaciuta e con facilità lassù sulla pianura trovi -- si -- ettaro dopo ettaro dei girasoli. ‘E una magra consolazione per i nostri ospiti argricoltori delle olive a San Pietro dove fa sempre freddo, è piovoso e nebbioso sulla pianüa, e i suoi abitanti devono viaggiare fino qui giù per acchiappare dei raggi di sole solitari. Ma non una consolazione eccessiva: evidentemente hanno risorse per pagare i loro viaggi.

Si! Il povero insensato di gente della pianura portando una giacca alla moda di pelle scamosciata chiede la cena a Luigi. Dovranno chiedere alla sua moglie, dice Luigi, recitando alla platea. La gente di campagna batte in astuzia i compiaciuti cittadini sofisticati. Purtroppo, proprio mentre Maria arriva, asciugando le mani sul suo grembiule in maniera efficiente, e l’intrattenimento sta per cominciare, il piccolo Stefano appare per chiamare, noi degli ospiti privilegiati, nella sala da pranzo. C’è un pò di appagamento dato dall’esibire il nostro facile accesso al regno di Maria, e facciamo un’uscita maestosa. Ma ci perdiamo il divertimento: possiamo appena sentire la voce di Maria da qui.

Quando lei riappare per riprendere con accuratezza la distribuzione dei diecimilla antipasti, uno dei nostri compagni portando il fazzoletto annodato sulla testa, mentre siamo già sorridenti in attesa, chiede “I stranieri?”

“Ritornano domani per pranzo, certamente,” risponde Maria frettolosamente.

Hawes, Annie. Extra Virgin: Amongst the Olive Groves of Liguria. London: Penguin Books Ltd, 2001. (page 36-39)

As we wait to be called through, two new customers arrive; a pair of weekend holidaymakers straying in from the coast, to judge by the lack of string and knotted hankies about their persons. Yes: their linguistic handicap gives them away. They are addressing Luigi in Italian. And they are ordering sparkling white wine and a dish of olives: the classic pre-dinner aperitivo. Are they going to try to insinuate themselves into Maria’s dining room? Are they, like us only a few weeks ago, innocent of the fact that our hosts will have no truck with the foolish modern notion that the job of a restaurant is to feed casual passers-by on demand? We hope so; and judging by the expectant silence that has fallen among the assembled card-players, so does the rest of the company.

Lured by the clatter of knives and forks, the low hum of companionable eating-chat, the mouth-watering cooking smells every now and then a bunch of these ignorant strangers will walk confidently in thinking they have found the delightful country restaurant they were looking for: good peasant food, traditional local dishes, home-grown specialities fresh from the vegetable garden. They’re right, of course. Maria is happy to feed anyone who’s given her a bit or warning with endless deliciously authentic dishes, in terrifying abundance and with great insistence, as we know to our cost. But the bit of warning is vital.

Maria will tell you that it’s simple politeness to give a day’s notice if you’re expecting to be fed a decent meal. Or a morning at the very least. She has much to say on the topic, and everyone is looking forward to hearing her say it again.

Is it possible, she will ask, that the lives of stranieri could be so senseless and chaotic that they are unable to predict from one day to the next where and how they will be eating? Do they have no respect for their hosts, who will have to improvise something shameful from whatever’s lying around, and be hindered from demonstrating the full range and virtuosity of their cooking? Unless, of course, they want pasta out of packets, sugo made with tinned tomatoes: in which case they have no respect for their own stomachs, and have come to the wrong place. Her poor starving victims will slink out with a flea in their ear, or agree meekly to come back tomorrow with an appointment - having preferably sat down for a civilized chat about what is available, what is in season, and how they like it prepared. Like normal people. A gleeful cackling commentary in dialect will break out the second they are out of the door. Watching persons who think themselves superior losing face, making a brutta figura as they call it here, is a national sport: and shamefully, we can’t help but look forward, along with the rest of the bar, to witnessing the discomfiture of the strangers.

We have understood by now that we are hardly any more foreign than people from other parts of Italy; they also count as stranieri, can’t speak the local tongue either, and are easily as glower-worthy as us. People from Milan or Turin, or any of the other towns and cities of the rich high plains to the north, are not just stranieri but Plainsfolk, into the bargain ‘gente de pianüa’ in dialect. Said in the right tones of withering scorn, this phrase conveys everything a hardworking hill-farmer locked in constant struggle with deluge and drought, with collapsing terrace walls and recalcitrant olive trees, might wish to say about rich lazy good-for-nothings who live a life of ease messing about in offices or factories, or farming that flat fertile land where you hardly have to lift a hoe. People, in fact, who have never done a day’s hard graft in their lives. Furthermore, among the crops that grow so smugly and effortlessly up there on the plains you will find -- yes -- hectare upon hectoare of sunflowers. It is some slight consolation to our olive-farming hosts in San Pietro that it is always cold, rainy and foggy on the pianüa, and its inhabitants have to travel all the way down here to catch the odd ray of sunshine. but not that much of a consolation: evidently, they can afford their travel.

Yes! The poor sap of a Plainsman in the stylish suede jacket is asking Luigi about dinner. They will have to ask his wife, says Luigi, playing to the gallery. Simple country folk outwit smug city slickers. Alas, just as Maria arrives, wiping her hands in a businesslike manner on her apron, and the entertainment is about to begin, little Stefano appears to call us privileged guests away to the dining room. There is a small amount of satisfaction to be got from showing off our easy access to Maria’s domain, and we make a majestic exit. But we’re missing the fun: we can only just hear Maria’s voice from in here.

The strangers? asks one of our hanky-headed companions, already grinning in anticipation, when she appears to take over the doling out of the ten thousand antipasti.

Coming back tomorrow for lunch, of course, replies Maria briskly.

Questa citazione è una delle mie favorite. Ho letto questo libro durante il mio primo o secondo anno abitando qui in Italia. Prima, non mi ero accorta che si era sviluppata in me una percezione del cibo per lo più come un tipo di divertimento, un’arte ed una cosa culturale e non principalmente come una parte importante di una vita sana, della salute del corpo. . .una necessità ed una responsabilità.

La cucina italiana è amata globalmente. Ma penso che normalmente quando i stranieri parlano di essa pensano ad un elenco di piatti, o forse un pasto (con un primo, un secondo ed un contorno). Secondo me, per capire la cucina italiana bisogna pensare a più di un piatto, un pasto o anche del menu per un giorno. Ci sono delle regole per mangiare che cambiano secondo il tempo (la stagione dell’anno, l’ora del giorno), a cosa si è mangiato prima e a cosa si mangerà dopo, l’età (panino con nutella per i bambini, non per gli adulti), etcetera etcetera. E penso che bambini e ragazzi imparino queste regole senza cognizione di averlo fatto. Mi ricordo bene quando mia figlia aveva 8 anni e mio marito è andato con lei ed una sua amichetta italiana a pranzo al ristorante dopo che eravamo rientrati a Roma in settembre. L’amica ha chiesto a mia figlia che cosa volesse mangiare. Siccome eravamo stati due mesi in Turchia e a lei mancava la pasta, mia figlia voleva spaghetti alla carbonara. L’amica italiana era un po’ sorpresa: Con questo caldo? Troppo pesante! Mio marito era impressionato, non solo perché una ragazza di 8 anni sapeva così bene le regole per mangiare in un modo sano e corretto secondo la cultura italiana, ma anche perché lei sapeva come sistemare il menu in modo da poter mangiare i spaghetti alla carbonara in settembre. “Allora, facciamo così: condividiamo una porzione della pasta e poi prendiamo solo le fragole per dolce. Okay?”

Secondo le mie osservazioni il cibo e il mangiare sono presi sul serio. Non è una cosa che riguarda sopratutto i soldi, l’innovazione, il divertimento e sicuramente non deve riguardare la comodità o l’efficienza. Per mangiare bene non è come a New York dove, secondo me, il miglior cibo si trova a ristorante. Credo che qui a roma il cibo migliore è a casa. Mi ricordo bene quando ho visto dei pomodori bellissimi dal fruttivendolo di mattina e per questo a pranzo ho ordinato un’insalata con pomodori: mi sono sorpresa del fatto che i pomodori non sembravano essere della stessa qualità di quelli della mattina. Secondo me, a NY il meglio della produzione agricola va ai ristoranti, mentre qui a Roma va alle case. Allora, l’ideale cena o pranzo, se non a casa tua sarebbe a casa di qualcuno che cucina bene. E questo è come fa Maria in questacitazione. Quando i villeggianti “ritornano domani per pranzo” saranno più come ospiti, e non come clienti casuali.

Questo citazione mi aiuta anche a capire perché, quando i bambini escono da scuola prima di pranzo e ci sono tanti genitori di fronte alla scuola per prenderli, quasi nessuno di loro va a pranzo nei ristoranti lì intorno. Come New Yorkese ero confusa: tutti vanno a casa in fretta per mangiare un pasto caldo che li aspetta? Ma, nessuno vuole mangiare qui immediatamente? Forse non ci sono dei ristoranti buoni . . . e in questo caso sarebbe un’opportunità persa per i commercianti. Ma dopo poco mi sono accorta che no, questo è un punto di visto molto americano. Questi bambini possono rimanere a scuola per pranzo ogni giorno. Se una famiglia decide di prendere il bambino per pranzo, è per un bel pranzo a casa con la famiglia, e non per un cibo fuori probabilmente di una qualità inferiore ma allo stesso tempo più cara di quello che c’è a casa. In questo caso potrebbero mangiare a scuola!

Infatti, noi ci siamo adattati. Non mangiamo fuori così tanto come prima. Poi, quando lo facciamo scegliamo una cosa non appartiene alla cucina italiana, come sushi, o una cosa che è spesso migliore fuori che a casa, come la pizza.

Questo mi fa pensare ad un discorso di Jamie Oliver che ha fatto recentemente sul problema dell’obesità negli stati uniti e anche globalmente. Ha usato un diagramma delle tre cose centrali per capire il problema: (1) La Gente, non cuoce a casa da due o tre generazioni e allora la cultura della cucina si è persa; (2) Le Scuole, per lo più i bambini e ragazzi mangiano uno o anche due pasti ogni giorno a scuola e il cibo che le scuole danno sono inferiori in ogni senso; (3) La Via Principale (“main street”), il cibo del fast food fa male a tutti coloro che ne mangiano spesso.

Secondo quello che dice Jamie Oliver due punti molto molto importante per combattere questo problema dell’obesità che sta diventando non solo un problema americano (anche se facciamo la guida) ma mondiale, sono che i ragazzi non mangiano a casa e mangiano troppo di fast food. Ma qui in Italia la maggior parte dei bambini e ragazzi pranzano a casa. Inoltre, non ci sono cosi tante scelte per fast food, come negli stati uniti ed Inghilterra.

Non voglio esagerare. Nuovi Di Per Di appaiono improvvisamente sempre qui nel centro di Roma, e anche nuovi negozi che io chiamo “McForni” in cui ci sono tante cose che dovrebbero essere lievitate nel modo giusto (ma non lo sono) e poi cucinate nel forno vero (ma non lo sono). Ma forse queste cose vanno avanti più lentamente qui, e qualche volta anche indietro: ho sentito solo una volta che una protesta della gente è riuscita a far chiudere un McDonalds, ed è successo qui, in Italia!

mercoledì 2 dicembre 2009

Come Roma Ci Fa Sentire

[Avviso: Normalmente cerco di trovare una citazione in cui uno straniero parla degli Italiani. Ma ho trovato queste due che mi hanno colpita. Parlano di Roma, non degli Italiani. . . . e vorrei presentarle qui.]


(1)
Cinquantacinque anni fa, in "Rome and a Villa," ("Roma ed una Casa"), la romanziera Eleanor Clark ha scritto dell'esageratezza di Roma, e sento che lei ha ragione mentre sto in piedi ai secchioni e guarda il vapore del respiro che galleggia via: Il Fontanone è diritto davanti, al di sotto del quale c'è la città delle favole, ma vedo solo fanghiglia e pezzi di vetro rotti. Troppa bellezza, troppi input; se non fai attenzione, puoi andare in overdose.


Doerr, Anthony. Four Seasons in Rome: On Twins, Insomnia, and the Biggest Funeral in the History of the World. n.p.: Scribner, 2008. Pagine 103.


Fifty years ago, in Rome and a Villa, the novelist Eleanor Clark called it the "too-muchness" of rome, and I feel she's right as I stand at the dumpsters and watch the vapor of my breath float away: the Fontanone is straight ahead, the fabled city below that, but all I see is sludge and broken glass. Too much beauty, too much input; if you're not careful, you can overdose.


(2)
Un marito sta spiegando a sua moglie perchè non si era sentito bene la notte precedente:

“. . . . Il passato qui [a Roma] è così . . . troppo. Così complicato. Mi disturbava anche che le mie scarpe mi facessero male.”
“Darley, è Roma. Dovresti essere contento.”

Updike, John. Twin Beds In Rome. Originally published in The Early Stories, 1953-1975. Republished in: Cahill, Susan Neunzig. The Smiles of Rome: A Literary Companion for Readers and Travelers. New York: Ballantine Books, 2005. Pagine 220.

“. . . .The past here is so . . . much. So complicated. Also, my shoes hurting bothered me.”
“Darley, it’s Rome. You’re supposed to be happy.”



Leggo sempre con una penna in mano per sottolineare le cose che mi interessano e scrivere alcuni appunti nei margini. Ho sottolineato questo testo di Doerr perchè mi è sembrato molto familiare. Descrive un panorama che ho visto spesso nel mio primo anno vivendo qui: il Gianicolo, uno dei più bei di Roma. Qualche volta mentre stavo vedendo questa splendida vista, ero anche scomoda e scoraggiata: ero incinta di 6-9 mesi, avevo aspettato l’autobus 870 in via Giacinto Carini per 5-45 minuti (45 più di 5), spesso sotto la pioggia nel buio dell'inverno tipico di europa, con la mia figlia che aveva sei anni e che non voleva camminare ed aspettare per un secondo autobus dopo scuola. Capisco bene la sensazione che Doerr descrive qui.

Ma quando ho provato a commentarla per il blog . . . non sono riuscita a farlo. Si, c’è il senso di essere travolta da Roma, dalla sua storia, età e bellezza, così troppo che mi sento obbligata a vedere solo i suoi brutti dettagli quotidiani, come la fanghilia ed i pezzi di vetro rotti di Doerr, o, per me, la pioggia nel buio e gli auotobus che spesso sembrano non arrivare mai. Ma questo non bastava.

Quando ho letto la citazione di Updike, ho trovato la cosa che mi ho sentita mancante. Come ha fatto Doerr, prima, Updike parla dell’esageratezza di Roma. Poi, come Doerr, parla delle cose molte ordinarie, sgradevoli e quotidiane: delle scarpe che gli fanno male. Doerr ha finito insinuando che Roma presenta una sfida: Potete sentire la realtà di questa città senza sentirvi travolti? Ci mette in guardia della belezza che porterebbe ad un overdose.

Ma nella citazione della novella di Updike, la moglie riprende suo marito “Dovresti essere contento” qui. Non è accettabile essere infelice a Roma. E per me questa ha completato il pensiero che Doerr ha cominciato. C’è una responsibilità, un senso di colpa, quando sei una straniera perchè sei fortunata di essere qui a Roma, una mitica città così ricca. Quanta gente nel suo paese vorrebbe essere qui? Vedere la sua bellezza, storia, ecc? E tu le ignori e vedi solo le cose brutte, o pensi alle cose che fanno male, come le scarpe? Si, si, vivere qui non è sempre facile. Ma quando diventa difficile, c’è questo senso di vergogna. Mi chiedo se è così anche quando sei romano . . . .

sabato 21 novembre 2009

Uno stereotipo o realtà?

. . . . gli italiani possono sopportare qualsiasi cosa sempre che possano parlare. Ed inoltre il loro modo preferito è tutti allo stesso tempo e ad un volume che [noi americani] riserviamo solo per dire a qualcuno che l’edificio è in fiamme.


Doran, Phil. The Reluctant Tuscan: How I Discovered My Inner Italian. n.p.: Gotham, 2006. Pagine 92.


. . . . Italians can endure anything as long as they can talk. And their preferred way is everybody at the same time and at a volume we usually reserve for telling somebody the building’s on fire.


Ho letto questo ed ho pensato: E’ vero che che è venuto e vissuto qui in Italia? Perchè per me questo pensiero riflette più un nostro stereotipo sugli italiani che una cosa che ho effetivamente riscontrato qui in Italia. Non ho dubbio che questo è successo per Phil Doran. Non voglio dire che è una bugia, ma solo che vivendo qui da cinque anni ho imparato che questo, almeno nella mia vita qui a Roma, non si è dimonstrato vero.

Nella trattoria affollata, sì, certo sentirai delle voci. Ma questo è più come un ronzio basso se tutti sono italiani. Se ci sono degli americani questo rumore di sottofondo può diventare il coro di una brutta opera “Se non ci avete notati, siamo stranieri! E proviamo a distinguerci invece di essere sottilli, non so perché!”

Secondo la mia esperienza, Phil Doran ha detto il contrario di quello che succede qui in Italia. Nello spazio pubblico quando un italiano usa una voce più forte degli altri indica che sta succedendo una cosa grave: un’ingiustizia (spesso fatta da un motociclista ad un autista, o vice versa), o un’emergenza come un’incendio o un’incidente.

Voglio dire che secondo me Phil Doran ha fatto due errori in questa citazione. La prima è che quando ci sono tanti italiani che si trovano insieme in uno spazio comune non è vero che parlano di più o con le voci più alte degli americani. Secondo me aspettano in silenzio o parlando a voce bassa. Invece gli americani cominciano a parlare con le voci più alte, sia se sono a casa che negli spazi comuni.

Il secondo punto sbagliato, per me è che la voce che gli americani usano per annunciare una cosa come un’incendio è il tono di voce normale per gli italiani quando chiacchierano. Vi presento un’esempio dei miei dati. Da anni vado alla scuola elementare di mia figlia per riprenderla dopo scuola. C’è uno spazio fra il parcheggio e le scale da cui i ragazzi escono. In questo spazio le mamme (e anche qualche nonna, papà e nonno) aspettano insieme i loro ragazzi. Ho sentito mamme che urlano ai bambini, ma normalmente succede solo quando il figlio o la figlia sta facendo dei capricci e quando sta superando i limiti della sfera comportamentale accettabile per i bambini, ed entra in quella della brutta figura . . . okay, a questo punto la mamma può urlare ‘Basta! Andiamo!” Ma all’infuori da questo caso, penso che non ho quasi mai sentito una mamma urlare il nome di suo figlio, figuriamoci poi una frase come “Vuoi fare merenda al bar?” o “Hai preso tutti i libri necessari per i compiti di stasera?”. Quando la mamma urla “Basta! Andiamo!”, lei sta vicino alla figlia. Invece, quando sono appena arrivata mi sembrava molto normale di urlare una cosa tipo “Vuoi fare la merenda qui?” o “Hai dimenticato la tua felpa?” da un lato all’altro di questo spazio di fronte alle scale della scuola.

Non mi ero ancora accorta che ho imparato a non fare più così, fino all’altro giorno. Ho lasciato mia figlia a scuola. Lei è scesa dalla macchina ed ha camminato verso le scale della scuola media. Ho visto che sul cruscotto al lato passeggero c’era qualche libro che lei aveva dimenticato. Per fermarla prima di entrare a scuola ho aperto lo sportello e urlato il suo nome. Ma solo il suo nome, solo una volta, e in vano. Mi sono sentita sbagliata, come se stessi facendo una brutta figura. Ho parcheggiato la macchina, preso i libri, camminato verso scuola, salita al terzo piano, chiesto il permesso per entrare nel corrodoio, trovato mia figlia e dato i libri. Penso che il mio metro di valutazione in questa situazione è cambiato molto negli ultimi anni. Prima sarebbe stato normale urlare un po’ più forte e non solo il suo nome, ma anche una frase, invece di buttare 10-15 minuti del mio tempo per portarglieli. Ora, ovviamente, per una cosa come i libri dimenticati? Non merita che si urli in pubblico!

Mi sto ipercorreggendo? Forse si, perchè quando urlo io non è la stessa cosa di quando un’italiana urla. Non mi va di farmi guardare da tutti se non per me stessa, almeno per mia figlia. Se fossi italiana potrei giustificarmi, e chiarirne il perché. Siccome sono straniera, non mi sento sicura di poterlo fare e non mi va di farlo in pubblico. Preferisco ipercorreggermi che sottocorreggermi.

La cosa che trovo interessante è: perché questo stereotipo sugli italiani esiste per gli americani? Ora esiste. Quando loro arrivano qui è sono sicura che non e difficile di riscontrare che questo è vero. Perchè non è facile notare le cose che non succedono ma solo quelle che accadono. E’ sufficiente sentire urlare una persona durante l’arco di una vacanza per pensare che lo stereotipo è confermato.

Ma da dove viene questo preconcetto? E’ possibile che gli italiani che sono immigrati negli Stati Uniti in generale erano tra i più strilloni degli italiani dell’epoca? Di conseguenza, l’Italia è diventata più “bella” nel senso della figura, mentre in questo senso gli Stati Uniti sono diventati più “brutti”? E lo stereotipo riflette la reazione degli americani a questo fenomeno???

lunedì 16 novembre 2009

sempre allo stesso momento

. . . . facendo tutto allo stesso momento come fanno sempre gli italiani, lui, come altri ventimila italiani, caricherà la macchina all'inizio di agosto per affrontare un viaggio di settecento chilometri sotto un sole infuocato con lunghe code di traffico ad ogni pedaggio.


Parks, Tim. Italian Neighbours: An Engishman in Verona. Vintage. 1992 (2001). Pagine 300.


. . . . doing everything at the same time as they always do, he and twenty million other Italians will load the car in early August to face a seven-hundred kilometre drive in blazing sunshine with miles of tailbacks at every toll booth.


Questo è stato il primo libro sul genere che ho letto. Credo che quando ho sottolineato quella parte pensavo che tutto ciò assomiglia molto a come fanno gli americani. Per esempio, quando ero studentessa universitaria a Washinton DC e sono dovuta andare a New York per "Thanksgiving" o il 24 dicembre per Natale, mi ricordo bene quanto tempo sono rimasta bloccata nel traffico in autostrada nel New Jersey che era diventata come un grande parcheggio, oppure come ho viaggiato in treni così pieni che sono dovuta rimanere in piedi nel corrodoio per cinque ore. Okay, c’è una somiglianza fra l’inizio d’agosto in italia ed il Thanksgiving o il 24 dicembre negli stati uniti.


Addesso capisco che se gli italiani fanno tutto allo stesso momento non vuol dire solo che viaggiano tutti lo stesso giorno (come fanno anche gli americani). Penso che questo esempio non basti a spiegare quanto ciò sia vero nella vita quotidiana italiana.


Mi sembra che in generale gli americani preferiscono credersi individualisti e molto indipendenti, se non in quello che fanno, almeno nel quando le fanno le cose. Forse questo è molto di più per i New Yorkesi. Ci sono tante cose che possono fare quando vogliono: fare la spesa, andare in palestra, mangiare al ristorante. C’è qualche commerciante sempre aperto, ventiquattro ore al giorno ogni giorno. E loro fanno tante cose su internet che è sempre “aperto”. In realtà ci sono momenti, a causa del lavoro e della scuola, in cui ci sono più persone che in altri. Ma, è un lusso potere fare le cose fuori orario normale.


Poi ho capito che all’inizio mi sembrava che tutti fanno le cose allo stesso momento perchè io faccio le cose da americana e loro le fanno da italiani: solo che abbiamo due culture differente. Ma qualche volta mi sono accorta che, anche se sarebbe facile evitare la folla, i romani non cambiano le loro abitudini.


Quando gli americani fanno le cose allo stesso momento, credo che sia perchè non c’è una possibilità di farle prima o dopo, a causa del lavoro, della scuola, della data fissa per una festa. Prima pensavo che gli italiani si comportassero come gli americani, e mi sembrava strano solo perchè i momenti giusti per fare le cose erano differenti a causa della cultura . . . ma credevo che erano dettati dagli impegni. Addesso ho cominciato a capire che gli italiani fanno tutto allo stesso momento non solo perché devono. Si lamentano delle folle e delle file, ma forse anche questo è una parte dell’abitudine. Si lamentano ma continuano a fare lo stesso, senza provare a cambiare niente. Perché? Non lo so. Secondo voi, ho ragione? Aiutatemi, vi prego!