mercoledì 2 dicembre 2009

Come Roma Ci Fa Sentire

[Avviso: Normalmente cerco di trovare una citazione in cui uno straniero parla degli Italiani. Ma ho trovato queste due che mi hanno colpita. Parlano di Roma, non degli Italiani. . . . e vorrei presentarle qui.]


(1)
Cinquantacinque anni fa, in "Rome and a Villa," ("Roma ed una Casa"), la romanziera Eleanor Clark ha scritto dell'esageratezza di Roma, e sento che lei ha ragione mentre sto in piedi ai secchioni e guarda il vapore del respiro che galleggia via: Il Fontanone è diritto davanti, al di sotto del quale c'è la città delle favole, ma vedo solo fanghiglia e pezzi di vetro rotti. Troppa bellezza, troppi input; se non fai attenzione, puoi andare in overdose.


Doerr, Anthony. Four Seasons in Rome: On Twins, Insomnia, and the Biggest Funeral in the History of the World. n.p.: Scribner, 2008. Pagine 103.


Fifty years ago, in Rome and a Villa, the novelist Eleanor Clark called it the "too-muchness" of rome, and I feel she's right as I stand at the dumpsters and watch the vapor of my breath float away: the Fontanone is straight ahead, the fabled city below that, but all I see is sludge and broken glass. Too much beauty, too much input; if you're not careful, you can overdose.


(2)
Un marito sta spiegando a sua moglie perchè non si era sentito bene la notte precedente:

“. . . . Il passato qui [a Roma] è così . . . troppo. Così complicato. Mi disturbava anche che le mie scarpe mi facessero male.”
“Darley, è Roma. Dovresti essere contento.”

Updike, John. Twin Beds In Rome. Originally published in The Early Stories, 1953-1975. Republished in: Cahill, Susan Neunzig. The Smiles of Rome: A Literary Companion for Readers and Travelers. New York: Ballantine Books, 2005. Pagine 220.

“. . . .The past here is so . . . much. So complicated. Also, my shoes hurting bothered me.”
“Darley, it’s Rome. You’re supposed to be happy.”



Leggo sempre con una penna in mano per sottolineare le cose che mi interessano e scrivere alcuni appunti nei margini. Ho sottolineato questo testo di Doerr perchè mi è sembrato molto familiare. Descrive un panorama che ho visto spesso nel mio primo anno vivendo qui: il Gianicolo, uno dei più bei di Roma. Qualche volta mentre stavo vedendo questa splendida vista, ero anche scomoda e scoraggiata: ero incinta di 6-9 mesi, avevo aspettato l’autobus 870 in via Giacinto Carini per 5-45 minuti (45 più di 5), spesso sotto la pioggia nel buio dell'inverno tipico di europa, con la mia figlia che aveva sei anni e che non voleva camminare ed aspettare per un secondo autobus dopo scuola. Capisco bene la sensazione che Doerr descrive qui.

Ma quando ho provato a commentarla per il blog . . . non sono riuscita a farlo. Si, c’è il senso di essere travolta da Roma, dalla sua storia, età e bellezza, così troppo che mi sento obbligata a vedere solo i suoi brutti dettagli quotidiani, come la fanghilia ed i pezzi di vetro rotti di Doerr, o, per me, la pioggia nel buio e gli auotobus che spesso sembrano non arrivare mai. Ma questo non bastava.

Quando ho letto la citazione di Updike, ho trovato la cosa che mi ho sentita mancante. Come ha fatto Doerr, prima, Updike parla dell’esageratezza di Roma. Poi, come Doerr, parla delle cose molte ordinarie, sgradevoli e quotidiane: delle scarpe che gli fanno male. Doerr ha finito insinuando che Roma presenta una sfida: Potete sentire la realtà di questa città senza sentirvi travolti? Ci mette in guardia della belezza che porterebbe ad un overdose.

Ma nella citazione della novella di Updike, la moglie riprende suo marito “Dovresti essere contento” qui. Non è accettabile essere infelice a Roma. E per me questa ha completato il pensiero che Doerr ha cominciato. C’è una responsibilità, un senso di colpa, quando sei una straniera perchè sei fortunata di essere qui a Roma, una mitica città così ricca. Quanta gente nel suo paese vorrebbe essere qui? Vedere la sua bellezza, storia, ecc? E tu le ignori e vedi solo le cose brutte, o pensi alle cose che fanno male, come le scarpe? Si, si, vivere qui non è sempre facile. Ma quando diventa difficile, c’è questo senso di vergogna. Mi chiedo se è così anche quando sei romano . . . .

sabato 21 novembre 2009

Uno stereotipo o realtà?

. . . . gli italiani possono sopportare qualsiasi cosa sempre che possano parlare. Ed inoltre il loro modo preferito è tutti allo stesso tempo e ad un volume che [noi americani] riserviamo solo per dire a qualcuno che l’edificio è in fiamme.


Doran, Phil. The Reluctant Tuscan: How I Discovered My Inner Italian. n.p.: Gotham, 2006. Pagine 92.


. . . . Italians can endure anything as long as they can talk. And their preferred way is everybody at the same time and at a volume we usually reserve for telling somebody the building’s on fire.


Ho letto questo ed ho pensato: E’ vero che che è venuto e vissuto qui in Italia? Perchè per me questo pensiero riflette più un nostro stereotipo sugli italiani che una cosa che ho effetivamente riscontrato qui in Italia. Non ho dubbio che questo è successo per Phil Doran. Non voglio dire che è una bugia, ma solo che vivendo qui da cinque anni ho imparato che questo, almeno nella mia vita qui a Roma, non si è dimonstrato vero.

Nella trattoria affollata, sì, certo sentirai delle voci. Ma questo è più come un ronzio basso se tutti sono italiani. Se ci sono degli americani questo rumore di sottofondo può diventare il coro di una brutta opera “Se non ci avete notati, siamo stranieri! E proviamo a distinguerci invece di essere sottilli, non so perché!”

Secondo la mia esperienza, Phil Doran ha detto il contrario di quello che succede qui in Italia. Nello spazio pubblico quando un italiano usa una voce più forte degli altri indica che sta succedendo una cosa grave: un’ingiustizia (spesso fatta da un motociclista ad un autista, o vice versa), o un’emergenza come un’incendio o un’incidente.

Voglio dire che secondo me Phil Doran ha fatto due errori in questa citazione. La prima è che quando ci sono tanti italiani che si trovano insieme in uno spazio comune non è vero che parlano di più o con le voci più alte degli americani. Secondo me aspettano in silenzio o parlando a voce bassa. Invece gli americani cominciano a parlare con le voci più alte, sia se sono a casa che negli spazi comuni.

Il secondo punto sbagliato, per me è che la voce che gli americani usano per annunciare una cosa come un’incendio è il tono di voce normale per gli italiani quando chiacchierano. Vi presento un’esempio dei miei dati. Da anni vado alla scuola elementare di mia figlia per riprenderla dopo scuola. C’è uno spazio fra il parcheggio e le scale da cui i ragazzi escono. In questo spazio le mamme (e anche qualche nonna, papà e nonno) aspettano insieme i loro ragazzi. Ho sentito mamme che urlano ai bambini, ma normalmente succede solo quando il figlio o la figlia sta facendo dei capricci e quando sta superando i limiti della sfera comportamentale accettabile per i bambini, ed entra in quella della brutta figura . . . okay, a questo punto la mamma può urlare ‘Basta! Andiamo!” Ma all’infuori da questo caso, penso che non ho quasi mai sentito una mamma urlare il nome di suo figlio, figuriamoci poi una frase come “Vuoi fare merenda al bar?” o “Hai preso tutti i libri necessari per i compiti di stasera?”. Quando la mamma urla “Basta! Andiamo!”, lei sta vicino alla figlia. Invece, quando sono appena arrivata mi sembrava molto normale di urlare una cosa tipo “Vuoi fare la merenda qui?” o “Hai dimenticato la tua felpa?” da un lato all’altro di questo spazio di fronte alle scale della scuola.

Non mi ero ancora accorta che ho imparato a non fare più così, fino all’altro giorno. Ho lasciato mia figlia a scuola. Lei è scesa dalla macchina ed ha camminato verso le scale della scuola media. Ho visto che sul cruscotto al lato passeggero c’era qualche libro che lei aveva dimenticato. Per fermarla prima di entrare a scuola ho aperto lo sportello e urlato il suo nome. Ma solo il suo nome, solo una volta, e in vano. Mi sono sentita sbagliata, come se stessi facendo una brutta figura. Ho parcheggiato la macchina, preso i libri, camminato verso scuola, salita al terzo piano, chiesto il permesso per entrare nel corrodoio, trovato mia figlia e dato i libri. Penso che il mio metro di valutazione in questa situazione è cambiato molto negli ultimi anni. Prima sarebbe stato normale urlare un po’ più forte e non solo il suo nome, ma anche una frase, invece di buttare 10-15 minuti del mio tempo per portarglieli. Ora, ovviamente, per una cosa come i libri dimenticati? Non merita che si urli in pubblico!

Mi sto ipercorreggendo? Forse si, perchè quando urlo io non è la stessa cosa di quando un’italiana urla. Non mi va di farmi guardare da tutti se non per me stessa, almeno per mia figlia. Se fossi italiana potrei giustificarmi, e chiarirne il perché. Siccome sono straniera, non mi sento sicura di poterlo fare e non mi va di farlo in pubblico. Preferisco ipercorreggermi che sottocorreggermi.

La cosa che trovo interessante è: perché questo stereotipo sugli italiani esiste per gli americani? Ora esiste. Quando loro arrivano qui è sono sicura che non e difficile di riscontrare che questo è vero. Perchè non è facile notare le cose che non succedono ma solo quelle che accadono. E’ sufficiente sentire urlare una persona durante l’arco di una vacanza per pensare che lo stereotipo è confermato.

Ma da dove viene questo preconcetto? E’ possibile che gli italiani che sono immigrati negli Stati Uniti in generale erano tra i più strilloni degli italiani dell’epoca? Di conseguenza, l’Italia è diventata più “bella” nel senso della figura, mentre in questo senso gli Stati Uniti sono diventati più “brutti”? E lo stereotipo riflette la reazione degli americani a questo fenomeno???

lunedì 16 novembre 2009

sempre allo stesso momento

. . . . facendo tutto allo stesso momento come fanno sempre gli italiani, lui, come altri ventimila italiani, caricherà la macchina all'inizio di agosto per affrontare un viaggio di settecento chilometri sotto un sole infuocato con lunghe code di traffico ad ogni pedaggio.


Parks, Tim. Italian Neighbours: An Engishman in Verona. Vintage. 1992 (2001). Pagine 300.


. . . . doing everything at the same time as they always do, he and twenty million other Italians will load the car in early August to face a seven-hundred kilometre drive in blazing sunshine with miles of tailbacks at every toll booth.


Questo è stato il primo libro sul genere che ho letto. Credo che quando ho sottolineato quella parte pensavo che tutto ciò assomiglia molto a come fanno gli americani. Per esempio, quando ero studentessa universitaria a Washinton DC e sono dovuta andare a New York per "Thanksgiving" o il 24 dicembre per Natale, mi ricordo bene quanto tempo sono rimasta bloccata nel traffico in autostrada nel New Jersey che era diventata come un grande parcheggio, oppure come ho viaggiato in treni così pieni che sono dovuta rimanere in piedi nel corrodoio per cinque ore. Okay, c’è una somiglianza fra l’inizio d’agosto in italia ed il Thanksgiving o il 24 dicembre negli stati uniti.


Addesso capisco che se gli italiani fanno tutto allo stesso momento non vuol dire solo che viaggiano tutti lo stesso giorno (come fanno anche gli americani). Penso che questo esempio non basti a spiegare quanto ciò sia vero nella vita quotidiana italiana.


Mi sembra che in generale gli americani preferiscono credersi individualisti e molto indipendenti, se non in quello che fanno, almeno nel quando le fanno le cose. Forse questo è molto di più per i New Yorkesi. Ci sono tante cose che possono fare quando vogliono: fare la spesa, andare in palestra, mangiare al ristorante. C’è qualche commerciante sempre aperto, ventiquattro ore al giorno ogni giorno. E loro fanno tante cose su internet che è sempre “aperto”. In realtà ci sono momenti, a causa del lavoro e della scuola, in cui ci sono più persone che in altri. Ma, è un lusso potere fare le cose fuori orario normale.


Poi ho capito che all’inizio mi sembrava che tutti fanno le cose allo stesso momento perchè io faccio le cose da americana e loro le fanno da italiani: solo che abbiamo due culture differente. Ma qualche volta mi sono accorta che, anche se sarebbe facile evitare la folla, i romani non cambiano le loro abitudini.


Quando gli americani fanno le cose allo stesso momento, credo che sia perchè non c’è una possibilità di farle prima o dopo, a causa del lavoro, della scuola, della data fissa per una festa. Prima pensavo che gli italiani si comportassero come gli americani, e mi sembrava strano solo perchè i momenti giusti per fare le cose erano differenti a causa della cultura . . . ma credevo che erano dettati dagli impegni. Addesso ho cominciato a capire che gli italiani fanno tutto allo stesso momento non solo perché devono. Si lamentano delle folle e delle file, ma forse anche questo è una parte dell’abitudine. Si lamentano ma continuano a fare lo stesso, senza provare a cambiare niente. Perché? Non lo so. Secondo voi, ho ragione? Aiutatemi, vi prego!

venerdì 6 novembre 2009

in questo senso, Roma é proprio il contrario di New York

In generale gli italiani non vogliono mostrare nessun segno che gli eventi spiacevoli della vita li obbligano a muoversi più velocemente del normale. 'E raro vedere un romano al centro della strada accelerare per evitare di essere investito da una macchina in corsa. In realtà, quando non riusciamo a capire dal modo di vestirsi se qualcuno è Italiano, un metodo che quasi sempre funziona senza errori, é osservare la velocità dei loro passi. Loro che non sono italiani sono ansiosi di arrivare nel luogo in cui vanno, invece, i nativi in generale e i romani in particolare non sono così ansiosi. In questo senso, Roma é proprio il contrario di New York.

Epstein, Alan. As the Romans Do: An American Family's Italian Odyssey. HarperCollins Publishers: NY, NY. 2000. Pagini 50-51.

"Italians in general are averse to displaying any signs that the untoward events in life merit moving any faster than they normally would. It is rare to see a Roman quicken his pace to avoid being hit by an oncoming car in the middle of the street. In fact, when we can't tell by the way someone is dressed if that person is Italian, which is usually a foolproof method, we can tell by the pace of the step. Non-Italians are eager to get where they are going, while the natives in general and Romans in particular are not. In this sense, Rome is the very opposite of New York."

Mi è piaciuto molto vivere ad İstanbul, ma non è una città fatta per i pedoni. Siccome amo molto camminare in città (come mezzo di trasporto), anche se passeggiare sul Bosforo è molto bello, per me non è abbastanza. Quindi, a Roma cammino ogni giorno per almeno un'ora e qualche volte anche tre o quattro. Cammino per fare la spesa e prendere le ragazze dalle scuole. Dato che sono New Yorkese, vado spesso di fretta. Voglio andare veloce . . . mentre generalmente ci sono due tipi di persone che camminano così lentamente che a volte non sono neanche sicura che si stiano muovendo: i turisti e gli italiani.

Capisco bene che nel centro storico ci sono gruppi di turisti che non pensano che Roma è una città di oggi, bensi un museo. Forse non hanno viaggiato tanto nella loro vita, e dopo averlo sognato per anni, finalmente sono arrivati a vedere La Città Eterna. Il turismo è una grande parte dell'economia di Roma. E quindi vedendoli mi fanno ricordare che Roma è così bella che merita questa ammirazione e una volta ogni tanto mentre cammino come una New Yorkese (da sola, in fretta) devo alzare la testa ed almeno dare un'occhiata a questo bel museo in cui sto abitando. Okay, posso scusarli per bloccare i marciapiedi di Roma.

La mia frustrazione consiste nel fatto che i nativi quando camminano a gruppi di due, tre o quattro, vanno lentamente mentre parlano e non si rendono conto che stanno occupando tutto il marciapiede e rendono impossibile a qualcuno, per esempio me, che vuole camminare un pò più velocemente, di farlo. Prima andavo alla mia consueta velocità (quella che era necessaria per arrivare in tempo in un posto, come a scuola di mia figlia), vedevo un pò più avanti un gruppo di italiani che chiacchieravano mentre camminavano molto molto lentamente e bloccavano tutto il marciapiede, lasciando un po di spazio tra l'uno e l'altro. Non abbastanza per far passare una persona . . . solo sufficiente per girare la testa e guardare l'un l'altro più come se stessero a tavola e non in mezzo al marciapiede dove ci possono essere altri che hanno bisogno di arrivare in un posto in tempo!

Prima pensavo che, nel momento in cui mi fossi avvicinata, loro accorgendosi di me, si serebbero spostati per farmi passare senza dover rallentare. In seguito ho imparato che non si rendevano conto di me, ed ho cominciato a rallentare prima, poi a dire qualcosa, come "permesso", dopo di che dimostrare in un modo senza parole che loro erano maleducati secondo me . . . e costringendoli così a farmi passare.

Ma anche questo non andava bene. Ogni volta mi disturbavano almeno tre cose: (1) non mi piaceva interrompere le loro conversazioni; (2) non volevo rallentare la mia andatura; (3) mi era impossibile evitare di rendermi conto delle differenze culturali. Se capissi meglio l'Italia e gli italiani non mi sentirei così frustrata: o quanto meno non mi troverei in questa situazione (perché andrei in macchina o con un'altro mezzo di trasporto, oppure partirei prima per evitare di andare di corsa, o ancora sceglierei una stessa scuola per tutte due le mie figlie, quanto meno una scuola più vicina, ecc.) o se mi trovassi in questa situazione direi qualcosa che mi permettesse di scaricarmi e continuare senza essere infastidita.

Adesso tendo ad evitare i marciapiedi quando è possibile e cammino nella strada: così non devo né rallentare, né confrontarmi con quelli che stanno bloccando il marciapiede, constringendomi tra le macchine parcheggiate e quelle che passano . . . così riesco ad arrivare in tempo senza essere molto sconvolta e (facendo gli scongiuri) senza ferite (dalle macchine o dalle moto).

Ma sto qui da cinque anni. Mi avete insegnato qualche cosa. Una delle quali è che una passeggiata con qualche amico è veramente un piacere. Quanto detto sopra si riferisce solo a quando cammino, ma qui a Roma ho imparato a passeggiare. L'esempio più bello di passeggiata per me è a Natale quando la sera dopo la chiusura dei negozi ci sono delle famiglie che passeggiano nel centro storico. Il primo Natale che ho vissuto, non ho capito perchè le strade erano così piene: se tutti i negozi erano chiusi, che faceva tutta questa gente? Dove andava? E poì, quando ho capito che faceva una passaggiata con la famiglia . . . ho pensato: ma come mai i commercianti non aprono i negozi? Che bella opportunità di guadagnare di più. Addesso capisco meglio il perchè, ma ne scriverò in un altro post su questo blog. Basti dire che allo stesso momento a New York è il tempo dei "last minute shopping" in cui quelli che stanno disperatamente cercando di comprare le cose che hanno dimenticate o non avevano avuto tempo di trovare prima . . . stanno facendo lo shopping in fretta . . . come in un "reality" in TV in cui c'è una gara: chi spende più soldi in un'ora.

Dopo questa lezione, poco a poco, ho imparato a fare delle passeggiate che per me vuol dire: principalmente divertirsi all'aperto chiacchierando con degli amici (mentre camminiamo). Ho imparato a farlo così bene che a volte esco da casa una mezz'ora in anticipio per arrivare in tempo a destinazione . . . con qualch'uno dei miei podcast preferiti appena scaricati nell'iphone e faccio una passeggiata da sola: parlo al telefono con gli amici e la famiglia, ascoltando l'ipod . . . e così "riprendere le ragazze dalle scuole" può diventare una delle attività rilassanti della mia giornata. Forse questa non è una passeggiata romana, neanche una passeggiata New Yorkese. Penso che da solo un romano cammina invece di passaggiare, ed una New Yorkese che non cammina per arrivare, cammina più veloce (o corre) con l'ipod per fare dello sport. Forse quella che faccio io è una "fusion" delle due culture, ma non è propria di nessuna.

Ma quando sto passeggiando, da sola o in compagnia, cerco sempre di evitare di bloccare gli altri che non hanno l'opportunità in quel momento di far una passeggiata ed invece devono camminare per arrivare alla meta. E cerco di lasciare un passaggio per loro sul marciapiede (se possibile). 'E qui che volevo arrivare: non voglio dire che gli italiani devono camminare più velocemente o sempre di fretta, come i New Yorkesi. Voglio dire: Grazie per avermi insegnato l'arte della passeggiata, e per farmi ricordare di lasciare del tempo per farle . . . ma vorrei pregare coloro che passeggiano rilassatamente di voler condividere il marciapiede con le persone che devono passare più velocemente . . . lasciando lo spazio necessario a passare senza rallentare! Grazie!

l'indovinello di Roma

Potrei abitare a Roma per 20 anni e non essere mai sicuro di non aver perso qualche viale alberato e molto importante a soli dieci isolati dal nostro appartamento. Questo è l'indovinello di Roma che ipnotizza: la sua pazienza, la sua stratificazione, il passato inglobando dal fango del Tevere, il vento portando della polvere dall'Africa, piove demolendo le rovine, e il peso accumulato dei secoli facendo tutto stretto e compatto, come una transustanziazione di tutte le pietre in un'unica.

Doerr, Anthony. Four Seasons in Rome: On twins, insomnia, and the biggest funeral in the history of the world. Scribner. 2007. Pagine 84.

In Rome I could live twenty years and never be sure I hadn't missed some hugely important, tree-lined avenue ten blocks from our apartment. It is the puzzle of Rome that mesmerizes: its patience, its stratigraphy, Tiber mud gumming up the past, wind carrying dust from Africa, rain pulling down ruins, and the accumulated weight of centuries compacting everything tighter, transubstantiating all stones into one.

Non è solo che questa citazione mi sembra interessante. Non ho nessun dubbio che sia vero: ho vissuto questo tante volte qui a Roma. Nel primo e più incredibile esempio c'entra la scuola di mia figlia. Prima di traslocare da Istanbul a Roma siamo venuti a Roma per un mese di "ricerca" durante l'estate. Quando siamo tornati un anno dopo, in settembre, per abitare qui abbiamo affittato la stessa casa della prima volta. In totale abbiamo vissuto là per tre mesi. Abbiamo fatto la spesa vicino a casa e camminato tanto. Alla fine d'ottobre ci siamo trasferiti in un altro quartiere. Due anni dopo, quando abbiamo cercato una scuola nuova per nostra figlia . . . abbiamo imparato che a due isolati da quella casa in cui siamo stati per tre mesi c'è una grande scuola che comprende una scuola materna, una elementare, una media, ed anche un liceo. E noi siamo stati così vicini in settembre, un anno prima, senza alcuna consapevolezza che era là. Addesso non posso capire come sia stato possibile. Quando la scuola ricomincia a settembre c'è tanto traffico, tutti arrivano insieme . . . le strade sono proprio un casino . . . ma quando ho abitato lì vicino, non ne ero conscia. Ah, l'indovinello di Roma!

bibliografia

(di 16/11/09)


Agar, Michael. Language Shock: Understanding the Culture of Conversation. 1st ed. New York: William Morrow & Co, 1994.

Doerr, Anthony. Four Seasons in Rome: On Twins, Insomnia, and the Biggest Funeral in the History of the World. n.p.: Scribner, 2008.

Epstein, Alan. As the Romans Do: An American Family's Italian Odyssey. Later Printing ed. n.p.: Harper Perennial, 2001.

Gilbert, Elizabeth. Eat, Pray, Love: One Woman's Search for Everything Across Italy, India and Indonesia. n.p.: Penguin (Non-Classics), 2007.

Harrison, Barbara Grizzuti. An Accidental Autobiography. n.p.: Mariner Books, 1997.

Hawes, Annie. Extra Virgin: Amongst the Olive Groves of Liguria. London: Penguin Books Ltd, 2001.

Parks, Tim. Italian Neighbours. n.p.: Vintage, 2001.

Parks, Tim. Italian Education. n.p.: Perennial Currents, 1996.

Tucker, Michael. Living in a Foreign Language: A Memoir of Food, Wine, and Love in Italy. n.p.: Grove Press, 2008.

Doran, Phil. The Reluctant Tuscan: How I Discovered My Inner Italian. n.p.: Gotham, 2006.


perchè "come vi vediamo"

Qualche anno fa, quando il libro "Mangia, Prega, Ama" era ancora ai suoi esordi, la mia amica Silvia m'ha detto che aveva trovato interresante leggere di come una ragazza americana ha descritto le sue esperienze abitando a Roma per quattro mesi. In seguito questo libro è diventato molto popolare. 'E stato tradotto in tante lingue, anche in italiano. Quelli di Hollywood stanno facendo un film basato sul libro.

Allora, dopo cinque anni di vita qui a Roma ho preso la decisione di provare a risolvere un mio problema: non parlo italiano. Ci vogliono tante ore di terapia per capire bene il perché, e non voglio che questo blog sia uno di quelli del tipo "diario personale". Ma, posso dire che (1) capisco quasi tutto (2) non é perché ho un pregiudizio contro la lingua o la gente (dimostrazione: tutte e due le mie figlie parlano italiano e la grande va in una scuola italiana...ed io faccio tante cose per spronarle nella lingua; un'ulteriore prova: ho scelto (e continuo a scegliere) di abitare a Roma. . . se volessi, potrei andarmene via immediatamente.)

Per capire il perché di questo blog, è anche importante sapere che io leggo tanto. Forse troppo. Se avessi parlato invece di leggere questi cinque anni . . . . Va beh. Non devo pensare così. Lo so che in generale gli americani parlano a voce alta e spesso vanno fuori dai paesi in cui la gente parla inglese ma presumono che tutti vogliono e possono parlarlo lo stesso. E sono certa che anch'io ho fatto questa brutta figura più di qualche volta. Ma ti giuro che sono sensibile a questa tendenza e cerco sempre di superarla. La situazione era così: non sapevo parlare italiano bene, se provavo, sbagliavo. Si si, lo so, così avrei imparato come tanti altri. Ah, se solo non fossi molto molto timida! Ecco, come posso vivere in italia, senza parlare italiano, ma anche senza insistere che tutti parlino inglese (a voce alta) con me? Sono diventata un'esperta a vivere e interagire senza parole. Sono anche esperta a trovare coloro che possono capire che anche se non parlo troppo (anzi poco), non significa che voglio essere scortese o poco amichevole: con un sorriso grande, e qualche parola, riesco a fare tante cose quotidiane.

Tra i libri che leggo ce ne sono tanti in cui l'autore scrive dell'esperienza di essere stranieri, di vivere in un paese a lui estraneo. Okay, non sono sempre, o forse spesso, gli autori più bravi del mondo. Tante storie sono solo dei ricordi della gente che ha vissuto in un paese a loro straniero. In questi libri trovo qualche cosa. (1) Sono leggeri e divertenti: leggere è come guardare la TV. Nella mia vita quotidiana è raro che ho un'ora (o più) senza un'interruzione. Quando posso, leggo questi libri poco a poco, dieci minuti qui, cinque minuti là. (2) Normalmente ci sono almeno due o tre frasi o paragrafi che mi fanno pensare alla mia vita qui in Italia (o in Turchia dove ho vissuto per cinque anni prima di abitare a Roma), forse a una cosa che mi sembra molta giusta ma alla quale non ho mai pensato prima, o a un'altra con cui non sono d'accordo affatto. (3) E quando leggo delle esperienze mi ricordo che "cultura" non è una cosa fissa, ma invece è un processo. Se sembra un concetto troppo profondo per questo contesto devo ammettere che non è mio: è l'idea principale di Michael Agar esposta nel suo libro "Language Shock". 'E anche adesso aggiungo un'altra confessione: ho un dottorato in linguistica, sociolinguistica nello specifico. Non lo dico per vantarmi: non ho continuato a perseguire la carriera di docente universitaria. Ma il mio punto di vista è spesso influenzato dalla sociolinguistica. Il perchè della mia preferenza a vivere nelle culture straniere non è ovviamente perchè sono molto brava ad imparare le lingue :). Piuttosto è che mi piace molto l'esperienza della cultura come processo. Vivere in Italia mi insegna tante cose sulla mia identità di americana e anche sull'Italia. Per me è interssante e divertente vivere in una cultura straniera: è come un gioco intellettuale.

Insomma, il perchè del titolo "come vi vediamo" è perchè voglio usare questo blog come un ponte fra il mio hobby, leggere in inglese, ed il mio dovere, imparare a parlare italiano. Spero che tradurre questi piccoli testi, e poi scrivere i miei pensieri possono essere un'attività interessante (più degli esercizi grammaticali) da fare nelle miei lezioni. Non volendo badare al fatto che probabilmente nessuno lo leggerà, se pubblico questo mi sento obbligata a continuare a mettere regolarmente qualcosa sul blog, nella speranza che qualcuno lo trovi interessante, e questo al meno mi aiuta ad imparare l'italiano. Così posso prendere pezzi del mio hobby, imparare l'italiano scritto, e creare un'opportunità per conversare in italiano in due maniere: con il mio istruttore durante il processo di correzione delle traduzioni e delle cose che scrivo io, e poi se qualcuno lascia un commento sul blog, posso rispondere e così sarà un'opportunità per la conversazione scritta.

chi sono

La mia storia in breve: Sono una quarantenne americana che abita a Roma da cinque anni. Amo leggere e leggo tanti libri scritti da americani che parlano delle loro esperienze in Italia. Pensavo che sarebbe divertente per gli italiani sentire in italiano le cose che gli americani hanno scritto di loro. E per me, sarebbe molto molto interessante sentire le reazioni degli italiani alle cose scritte dagli americani. Anche scegliere e tradurle sarebbe un progetto divertente ed utile per migliorare il mio italiano. Allora, comincio cosi: con l'aiuto del mio insegnante d'italiano metto su questo blog dei testi tradotti dall'inglese e delle mie reflessioni. Spero che gli italiani lascieranno dei commenti!

Elif